

di Bruno Laudi - Il Fatto Quotidiano
In un precedente intervento su questo blog abbiamo parlato del recupero del Trattamento di fine rapportoper quei lavoratori che hanno scelto di versare la propria quota di Tfr al Fondo di tesoreria gestito dall’Inps. Il nostro sistema però contempla, ormai da oltre un decennio, anche l’accantonamento delle quote di Tfr nei fondi di previdenza complementare, oltre quello obbligatorio di competenza dell’Inps. La previdenza complementare – disciplinata dal D. Lgs. n. 252/05 – prevede la possibilità per il lavoratore di destinare tutta la quota di Tfr mensilmente maturata a favore di determinati fondi di natura privatistica che si distinguono in fondi “chiusi” o negoziali e in fondi aperti.
I fondi chiusi o complementari (i più diffusi) trovano la propria fonte principale nella contrattazione collettiva sindacale (nazionale o aziendale) e sono distinti per settore di competenza, mentre quelli aperti sono quelli istituiti e gestiti da banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio e Società di intermediazione mobiliare (Sim). I fondi operano in base a precise regole di investimentoche rispondono a rigorosi criteri di prudenza; la loro finalità infatti non è speculativa, ma previdenziale e per tali ragioni sono sottoposti alla vigilanza della Commissione di vigilanza sui fondi complementari(Covip).
Se si tratta di azienda con più di 50 dipendenti, il lavoratore entro sei mesi dall’assunzione può decidere di destinare ai fondi (chiusi o aperti) le quote di Tfr che maturerà nel corso del rapporto oppure destinare le proprie quote al Fondo di tesoreria. Se non effettua alcuna opzione, le quote di Tfr verranno destinate alla forma pensionistica complementare prevista dai Ccnl o dagli accordi collettivi applicati. In caso di azienda con meno di 50 dipendenti, se il lavoratore non opta per i fondi complementari, il Tfr rimane in azienda e verrà corrisposto direttamente dal datore di lavoro al momento della cessazione del rapporto.
La costituzione di una pensione complementare costituisce dunque, allo stato attuale, quasi una necessità, soprattutto per i lavoratori più giovani, per colmare la perdita di reddito dovuta al nostro attuale sistema pensionistico contributivo. Le prestazioni erogate dai fondi complementari godono inoltre di una particolare agevolazione fiscale anche in caso di richiesta di liquidazione del capitale accantonato.
Quindi, stante la diffusa inerzia dei fondi e la negazione al lavoratore del diritto ad agire, si determina un vuoto contributivo nel percorso previdenziale del lavoratore.
È vero che il nostro ordinamento ha istituito una forma di assicurazione – attribuita al Fondo di garanzia – che interviene per coprire il mancato versamento da parte del datore di lavoro, colmando in tal modo l’assenza dell’automaticità della prestazione. Però la condizione necessaria per poter accedere al Fondo di garanzia è l’accertamento giudiziale del debito del datore di lavoro o (in alternativa) l’apertura di una procedura concorsuale. Ma se al lavoratore è negato il diritto al recupero del credito per la mancanza di legittimazione e il fondo complementare non agisce in nome proprio, non vi è la possibilità di attivare la speciale copertura prevista da questo Fondo. È quindi necessario un intervento legislativo che chiarisca chi può agire in questi casi.