

di Carlos Arija Garcia - La legge per tutti
Sei stanco di lavorare nel posto in cui ti trovi e vorresti cambiare aria. Ma ti chiedi: se do le dimissioni, ho diritto alla Naspi? Bella domanda. Alla quale c’è una risposta pronta che, però, va approfondita: in alcuni casi sì, in altri casi no.
La Naspi, infatti, è una prestazione a sostegno del reddito. Dal 1° maggio 2015 spetta a chi non ha più un lavoro e non per colpa sua ma per colpa dell’azienda, di un collega o delle circostanze a patto che ci siano determinate condizioni contributive. È curioso: il nuovo sussidio di disoccupazione è entrato in vigore il giorno della festa dei lavoratori. Sarà un caso.
Ecco, quindi, che succede quando vuoi dire addio al tuo posto di lavoro per tua scelta e quando le dimissioni danno diritto alla Naspi.
La Naspi, dunque, è l’indennità di disoccupazione che spetta a chi ha perso involontariamente il lavoro. Il che non vuol dire, necessariamente, essere stati licenziati: ci sono dei casi in cui vengono presentate le dimissioni non per volontà propria ma perché non c’erano più le condizioni per proseguire il rapporto di lavoro. Pensa, ad esempio, a chi è vittima di mobbing.
Per avere diritto alla Naspi devono essere rispettati, comunque, tre tipi di requisiti:
Partiamo proprio da quest’ultimo requisito per avere diritto alla Naspi. È considerato in stato di disoccupazione involontaria colui che non ha più un lavoro e che si sia iscritto ad un Centro per l’impiego dando l’immediata disponibilità a trovarne un altro e a partecipare alle misure di politica attiva del lavoro. È il caso, ad esempio, di chi è stato licenziato o di chi non ha avuto il rinnovo di un contratto a termine.
Il requisito contributivo per accedere alla Naspi consiste nell’essere in possesso di almeno 13 settimane di contribuzione nel quattro anni che precedono la data di inizio della disoccupazione.
Il requisito lavorativo, invece, richiede almeno 30 giorni di attività effettivamente svolta nel 12 mesi precedenti il periodo di disoccupazione.
Detto questo, ed in linea generale, la Naspi non spetta al lavoratore che ha interrotto il rapporto di lavoro dopo aver presentato le dimissioni o in seguito ad una risoluzione consensuale del contratto. Verrebbe a mancare, infatti, uno dei tre requisiti che abbiamo appena citato, cioè quello della disoccupazione involontaria.
Tuttavia, ci sono delle eccezioni.
Una delle eccezioni che consentono l’accesso alla Naspi a seguito di dimissioni è quella prevista quando il contratto viene interrotto da una lavoratrice durante il periodo tutelato di maternità, a condizione che le dimissioni vengano presentate nel lasso di tempo che va dai 300 giorni prima della data presunta del parto fino al compimento del primo anno di vita del bambino.
Anche il padre ha diritto alla Naspi in questo contesto ma solo se egli stesso ha usufruito del congedo obbligatorio al posto della moglie.
Può succedere, invece, che un lavoratore, mentre percepisce la Naspi perché disoccupato, trovi un altro lavoro. Il sussidio, a questo punto, si sospende. Che succede se nel nuovo posto ci sono dei problemi e lui presenta le dimissioni? Potrà riprendere la Naspi ma a queste condizioni:
A questo punto, il lavoratore avrà diritto a riprendere la Naspi da dove l’aveva lasciata.
Ad esempio. Tu hai diritto a 12 mesi di Naspi. Hai percepito il sussidio soltanto per 3 mesi, perché poi ti hai trovato un lavoro a termine con un contratto di 5 mesi. Per un certo motivo, hai deciso che quel posto non faceva per te e ti dimetti. A quel punto, se il reddito lordo non è stato superiore a 8.145 euro, riprenderai a percepire la Naspi per i 9 mesi che ti restavano.
Torniamo per un attimo ai requisiti generali per avere diritto alla Naspi. Dicevamo che vengono richiesti quello contributivo, quello lavorativo e lo stato di disoccupazione involontaria. Quest’ultimo è quello che ci interessa, ammesso che i primi due siano soddisfatti.
È considerato in stato di disoccupazione involontaria anche il lavoratore che ha interrotto il rapporto di lavoro, cioè che ha presentato le dimissioni, ma non per una sua libera scelta bensì per un comportamento altrui (del suo datore di lavoro, del capoufficio, dei colleghi). Un atteggiamento, insomma, che lo porta a lasciare il posto perché non ci sono più le condizioni per proseguire il rapporto. È quello che si chiama dimissioni per giusta causa. Quando vengono riconosciute tali? Per la giurisprudenza, sono da ritenere dimissioni per giusta causa quelle presentate per:
E che cosa succede se al lavoratore viene dato torto, cioè se non gli viene riconosciuta la giusta causa delle dimissioni? Succede che l’Inps chiederà indietro i soldi corrisposti come Naspi.